La Civiltà Cattolica – 19 giugno 1999
Appena tornati dalla California, dove hanno condiviso con Roberto Benigni la gioia per i tre premi Oscar conferiti a La vita è bella (migliore film straniero, migliore interpretazione maschile, migliore musica), Vincenzo Cerami e Nicola Piovani, rispettivamente cosceneggiatore e autore delle musiche del film, sono ripartiti per Betlemme, dove la sera del Venerdì santo, su invito del Governo palestinese, è stata rappresentata una loro composizione che ha per titolo La pietà. L’opera era stata proposta per la prima volta l’anno precedente al teatro Mancinelli di Orvieto.
Rai 3 ha trasmesso un back-stage dello spettacolo la sera del Giovedì santo, nella rubrica Prima della prima, e l’esecuzione integrale dell’opera (registrata a Orvieto) la mattina successiva. Si tratta di una cantata (testo di Cerami e musica di Piovani) per voce recitante, due voci femminili e orchestra, che consiste in una rivisitazione attualizzata della sequenza liturgica Stabat Mater, attribuita a Iacopone da Todi. Voce recitante Gigi Proietti. Voci femminili Amii Stewart e Rita Cammarano. L’orchestra Aracoeli è diretta dallo stesso Piovani. L’opera si divide in sei movimenti.
Sta la madre dolente
sotto il corpo sanguinante
del figlio inchiodato alla croce
Il primo movimento ha per titolo Sta la madre dolente. In una breve introduzione strumentale gli archi, i legni, gli ottoni modulano suoni sommessi nei quali affiorano echi di uno Schoenberg, di un Webern: tutta la raffinatezza della musica colta europea giunta al limite della decadenza. Intervengono le percussioni a spezzare l’incanto di quei suoni estenuanti introducendo ritmi barbarici, concitati, frutto di una concezione primitiva della musica, assai vicina al rumore. Mentre si perde in lontananza il suono di una cantilena (quasi una ninnananna), la voce recitante scandisce versi liberamente ispirati a quelli latini del cantico iacoponiano.
A quale uomo non si spezza iI cuore
Davanti a quel pianto, al dolore
della madre che patisce col Figliolo?
ll figliolo suo inchiodato
col torace di sangue rigato,
vinto, abbandonato e solo.
Secondo movimento; Esule vaga nella notte urbana. L’evocazione dell’atmosfera notturna è affidata a un dialogo sommesso tra violoncello e violini, ma ben presto dilaga il Fragore dissonante che si leva dalla giungla di cemento.
La metropolitana e un verme.
E un branco di iene la carovana di macchine e taxi […].
Esule vaga nella notte urbana
il volto di una madre bianca.
Cerca un figlio che ha perduto la via di casa,
e trascina la croce
con l’anima impotente,
anima senza voce.
Si ode il lamento della madre bianca (Rita Cammarano) prima flebile (un filo di voce) poi appassionato come l’effusione magniloquente di un’eroina da melodramma.
Dov’era lei, dov’era lei, madame?
Madame je dois vous dire une chose:
Votre fils est mort d’overdose.
Terzo movimento; Donna bianca smaltata d’asfalto. La voce recitante, con un ritorno indietro, evoca la “passione” del figlio della madre bianca. In un quadro di benessere che genera indifferenza per eccesso di saziata, si consuma il dramma di un ragazzo al quale manca il tempo per godere la bellezza del creato. II ragazzo si lascia morire. La madre, assente, non può far nulla.
Quarto movimento: Un’altra madre. Alla notte europea subentra la notte africana. La voce recitante, senza accompagnamento orchestrale, introduce la vicenda di una madre nera (in paradossale contrasto con la madre bianca) che piange il figlio morto di fame.
La madre nera piange
dentro un sogno che non finisce mai
ed è tardi ormai.
Copre di fiori e bacche sacre
quegli occhi spenti
e quelle gambe magre […].
Piccolo scheletro nudo al sole
che le mosche non scacci più,
somigli alla ridanciana morte su trampoli d’ossa,
un uccellino che non ha mai volato.
Avanza la madre nera (Amii Stewart) cantando una nenia dolce che si confonde con i brusii della foresta evocati dagli strumenti. Scende la notte, ma il sonno invocato non viene. La donna si dibatte tra gli spasimi di una concitazione che la tormenta. Il ritmo è convulso e selvaggio. Dalle stelle che brillano alte, oltre le fronde degli alberi, oltre il dorso dei monti, sembra provenire la voce di un bambino che chiama la mamma, che chiede cibo…Oppure è la madre a chiamare lui: “Mamaié, mamaié, mamaié…”. Alla voce della donna risponde, come un’eco, quella del violino. E’ questo il culmine emotivo della composizione.
Quinto movimento: Dormi, dormi.
Due madri, chine sul dolore,
cercano conforto nel pianto
e conforto nel canto della madre cercava il bimbo
quando non riusciva a prender sonno.
“Dormi, dormi”, cantava la madre
al bimbo che piangeva a mezzogiorno.
Aveva pena a dirgli: “Anche oggi
non c’è erba da masticare”.
La ninnananna per tutti e per millenni
ha lenito gli spasmi del ventre […].
Cosi non e per la madre sazia
Che pure soffia la ninnananna.
Al lume di carillon,
tra ninnoli di peluche,
con 1’uscio aperto sulla TV
placa le selvagge paure
di un bambino della buona sorte.
La donna nera e la donna bianca intrecciano le loro voci nel canto della ninnananna. Per la madre che è in ciascuna di loro non c’è differenza tra il figlio morto di fame e quello morto di overdose. Il mondo indifferente sta a guardare.
Sesto movimento: Stabat mater. Si avvicina il finale dell’opera. La voce recitante lancia un’invettiva contro la tirannia del mercato che, con leggi inderogabili, obbliga masse enormi a morire di stenti, mentre altri sprofondano nel vuoto di valori spirituali provocato dall’eccesso di beni materiali. Dopo l’invettiva si fa strada una domanda angosciosa.
Dio ha fatto l’universo in maniera che l’uomo
Non trovi traccia di lui.
Dio si nasconde…
La risposta anticipata dai suoni dell’orchestra, è nelle parole antiche dello Stabat Mater cantato dalle due donne mentre la voce recitante intercala alle strofe cantate in latino la parafrasi in italiano già udita nel primo movimento. La madre nera impone alle sillabe ritmi cadenzati. La madre bianca riveste con accenti di struggente dolcezza le espressioni Pro peccatis suae gentis… e Vidit suum dulcem natum… Poi le due voci si sovrappongono in un contrappunto che unisce asprezza e soavità.