Amadeus – 22 febbraio 2009
Mi piacerebbe analizzare la figura del compositore oggi, nel nostro tempo. In passato era una figura centrale della società. Cosa è successo? Perché gli interpreti nell’immaginario e nel peso della vita quotidiana hanno sostituito i compositori?
Forse dipende dall’impero della televisione, viviamo l’epoca della cosiddetta visibilità: chi esegue ha visibilità, chi scrive lo fa in privato, in solitudine. Chi canta è vissuto istintivamente come l’autore di quel che canta: “Nessun dorma di Pavarotti”, “Azzurro di Celentano” ho sentito dire anche “Goldberg variations di Gleen Gould”.
Se l’opera oggi si può fare anche senza una storia da raccontare (pescando nella multimedialità), l’opera oggi è ancora un genere?
E’ un genere generico: sotto il nome di Opera possiamo mettere quasi tutto, dal melodramma alle installazioni, dal grand opera all’operetta, dal melologo al musical.
Il musical si può considerare come una declinazione dell’opera contemporanea?
Penso grossomodo di sì: almeno nel suo ruolo sociale, nella dinamica produttiva e fruitiva, nel rapporto col pubblico; e soprattutto nella capacità di creare titoli di teatro musicale che restino in repertorio, ruolo a cui i teatri lirici hanno abdicato da anni. Quanto al livello musicale, beh per tirare un bilancio oggettivo bisogna aspettare un po’ di tempo. E poi di bilanci oggettivi non me ne intendo. Comunque, West side story è un titolo nato a Brodway che dopo più di mezzo secolo è nei cartelloni dei teatri di tutto il mondo.
Perché molti compositori italiani hanno regolari committenze in Europa mentre in Italia la situazione è statica?
In Italia la situazione mi sembra tragicamente statica da tanti punti di vista; in ambito politico-culturale siamo allo sfacelo. Non mi sorprende che lo sia anche in quello delle committenze musicali.
Perché in USA dove non c’è sovvenzione pubblica gli autori vedono rappresentate le loro produzioni?
Non sono esperto di leggi internazionali, ma credo che il meccanismo di incentivazione per la produzione di opere teatrali e musicali, basato su sconti fiscali sia molto efficace: quando un governo ti abbuona una parte di tasse se le investi in produzioni culturali è come se ti sovvenzionasse, ti dà soldi che lo stato rinuncia a riscuotere. Quando gli oneri sociali si alleggeriscono, è più facile produrre cultura e spettacoli. Quando lo stato, come da noi in Italia, da un lato elargisce sovvenzioni dall’altro ti spella con balzelli pesanti, è tutto molto burocratico e difficile: a parte che la sovvenzione pubblica prevede un criterio selettivo, dei giudici selettori che decidono a chi dare e a chi togliere, con l’inevitabile indotto di clientelismo politico e parapolitico che tu come tutti conosci bene. Un mio amico attore, negli anni ottanta mi diceva: “Il Teatro è caduto in mano al terziario!”
E perché in Italia molti compositori si son messi a gestire i teatri lirici reinventandosi manager?
Qualche collega ci ha provato per curiosità e si è dimesso in pochi mesi (penso a Catania). Qualcun altro ci si trova bene. Bisogna esserci portati.
Tu lo gestiresti un teatro d’opera?
Mi piacerebbe molto, ma non penso di esserne capace: burocrati, politici, sindacati… A criticare l’operato dei direttori dei teatri è molto facile, ma poi trovarcisi dentro e sbrogliare le matasse di problemacci e problemucci che tormentano quelle gestioni dev’essere infernale…
Quali cantanti, quale direttore e regista chiameresti nel cast di una tua opera vera e propria?
Beh, sembra un gioco infantile: potendo scegliere in tutto il mondo, come nelle favole, affiderei la parte musicale interamente ad Antonio Pappano (Carlos Kleiber non c’è più), e terrei per me la regia. Ma, realisticamente, si vede di volta in volta. Quando ho presentato in Italia in Israele e in Palestina lo Stabat Mater “La pietà”, le voci erano Anna Cammarano, Ami Stewart e Gigi Proietti: e mi sembravano le più belle del mondo.
In Italia (si sa) il successo non si perdona: che tipo di problemi o pregiudizi hai dovuto affrontar dopo l’Oscar?
I vantaggi sono stati un bel po’: mi è stata accordata più fiducia, anche nei lavori non cinematografici. Certo, un film così planetario fa sì che molte persone mi conoscano solo per quel titolo, ignorando ovviamente il resto del mio lavoro. Per questo mi inorgoglì molto un articolo del Los Angeles Post che, avendo a posteriori spulciato nella mia biografia, titolò: “Un Oscar lungo trent’anni”
Ma l’Oscar che cosa esattamente ha rappresentato per te come artista, per la tua attività di compositore?
In senso stretto, cioè nella composizione vera e propria, non ha rappresentato proprio niente: scrivo, vado in moviola, in studio di registrazione e alle prove in teatro come ho sempre fatto. In senso esteriore ha rappresentato gratificazioni, riconoscimenti, rispetto, mi ha aiutato molto: forse senza quel premio non ci sarebbe neanche questa intervista a un giornale così autorevole!
Perché di te si dice: più che un compositore, un artigiano?
L’ho detto io tante volte, e se lo dicono anche gli altri lo prendo come un complimento, anche se l’intenzione da parte di qualcuno può essere riduttiva. E’ vero quello che dicevi prima: in Italia il successo non si perdona. Lo so perché l’ho visto succedere ad altri artisti fortunati, fatti oggetto di invidia mascherata da livore. Ma su di me, sinceramente, non l’ho notato. Probabilmente si sparla alle spalle. Ma questo può valere da parte di colleghi, di addetti ai lavori e limitrofi. Ricordi la poesiola di Toti Scialoia? “Il sogno segreto/dei corvi di Orvieto/è mettere a morte/i corvi di Orte”. Però per il pubblico, per i lettori, per quelli che scrivono email non funziona così: in genere sono felici di un tuo successo all’estero e basta.
In che rapporti sei con Ennio Morricone, vi sentite, avete scambi di idee?
Sì, ci sentiamo, ci scambiamo idee, e a volte lui generosamente mi confida trucchi del mestiere – sempre di artigianato stiamo parlando, perché la sua poetica è un po’ distante dalla mia, ma la sua competenza musicale è infinita. Ma parliamo anche di politica, di calcio, ed è capitato anche di vedere la partita insieme… Nutro per Ennio un sentimento di reverenziale amicizia, di confidenziale soggezione, di stima cameratesca. Ricordo con affetto e orgoglio quando abbiamo suonato a quattro mani la notte di Natale di due anni fa; al telegiornale Rai eseguimmo ”Tu scendi dalle stelle” in un arrangiamento fatto da noi due. Uno spasso!
Quando, come e perché hai deciso di autoprodurti?
All’incirca all’inizio del ’90. Avevo in testa un tipo di teatro musicale – o concerto teatrale – che nessuno mi avrebbe prodotto. Troppo impegnato per le compagnie private, troppo inedito per i pigri teatri pubblici. E allora, con due compagni di strada generosi come Vincenzo Cerami e Lello Arena, abbiamo fondato “La Compagnia della Luna”, che come investimento economico è stata un disastro, ma che ha prodotto titoli come “La Cantata del Fiore”, “La Cantata del Buffo”, “Il Signor Novecento”, “Canti di Scena”, “La Pietà”, “Concerto Fotogramma” “L’Isola della Luce”. Li abbiamo prodotti e distribuiti, e sottolineo distribuiti: le due cantate hanno superato le centocinquanta repliche, il Signor Novecento più di duecentocinquanta, La Pietà, dopo la prima di Orvieto, è stata rappresentata a Bethlehem, Tel Aviv; a Roma ha fatto venti repliche a teatri esauriti e forse l’anno prossimo riesco a portarla a Milano. E conto di riprendere ancora a lungo tutti questi spettacoli. Immagina se non li avessi autoprodotti, se li avesse prodotti un ente lirico: una o due repliche e via in soffitta. Quante prime esecuzioni assolute abbiamo visto, e quante erano prime-e-ultime?
Il cinema c’è sempre nella tua vita professionale: ma quanto ti impegna? A quali colonne sonore stai lavorando?
Ormai mi divido a metà, nel corso dell’anno, ho in uscita due film a Parigi: Le code a changé di Danièle Thompson, e La Joueuse di Caroline Bottaro con la splendida Sandrine Bonnaire… E sto leggendo sceneggiature, mentre mi occupo del nuovo film di Michele Placido. Ma poi riprenderò il mio amato Concerto in Quintetto, un concerto agile in cui suono il pianoforte accanto a quattro musicisti valenti e affiatati. Uno spettacolo che presentiamo in città, province, paesi e paesini; in teatri, auditorium, piazze, chiese, palestre… l’abbiamo portato ad Atene, a Bombay, a Montreal, a Cuneo, a Villerupht, a Corinaldo, a Fontanetto Po… l’anno prossimo suoneremo a Parigi, a Salonicco e a Concordia sulla Secchia… Mi piace suonare e parlarne col pubblico che ti ascolta senza telecomando in mano.
Tu hai il merito e il privilegio di poter creare liberamente. Ma come hai costruito il tuo percorso professionale?
Con un bel po’ di fortuna. Se una buona stella ti protegge, devi farne tesoro. I regali della buona sorte – come i premi, i successi, le gratificazioni – si possono riconvertire in vari modi: per esempio si possono convertire in soldi, a volte in tanti soldi. Ma si possono anche convertire in libertà: libertà di scegliere come, dove e con chi lavorare. E io, in libertà, mi sono preso il lusso di scrivere e pubblicare opere fuori da qualsiasi commissione e dalla logica di qualsiasi mercato, compresi i mercati della cultura. Così ho potuto scrivere Epta, così sono potuto andare qualche mese a Parigi a realizzare Concha Bonita al Teatre de Chaillot, ho passato un’estate con Cerami a farne una versione ritmica italiana. Ho montato uno spettacolo sulla canzone romana, “Semo o nun semo”, un omaggio alla musica dei miei genitori, ai canti che ascoltavo nell’infanzia. Sono potuto andare a Delos, una magica isola in mezzo all’Egeo e realizzare la cantata “L’Isola della Luce” su testi di Byron, Omero, Einstein e Cerami… Se sei schiavo del fatturato, certi lussi non te li puoi prendere; ma per prenderti questi lussi devi rinunciare ad altri lussi, più concreti, più quantificabili, ma meno seducenti. Ammesso che sia esistita quell’età miracolosa che chiamiamo “L’età dell’oro”, era di certo un età in cui non esisteva l’oro.
Quale genere musicale ti viene più naturale scrivere?
Non so se si possa chiamare un “genere”, ma mi viene di risponderti “La musica teatrale”. La musica piena di energia di rappresentazione, con una sua drammaturgia occulta, nata per vivere su una ribalta, per essere eseguita in carne ed ossa, e destinata a svanire all’accensione finale delle luci in sala…
Potresti mai scrivere una Sinfonia tout court?
E perché no? Se mi venisse un’idea. Poi, sul risultato, beh, va a sapere come riesce…
Com’è organizzata la tua giornata come compositore? Diciamo il tuo metodo di lavoro…
Quando lavoro per il cinema, mi sveglio verso le otto, vengo qui nel mio studio che sta a un chilometro da casa, e qualche volte ci vengo a piedi. Qui dentro ho un magnifico Fagioli mezza coda, decine di matite 2b, un lussuoso temperamatite professionale, pile di carta pentagrammata, una collezione di dischi, un computer McIntosh, una macchinetta per il caffè e poc’altro. Soprattutto un gran silenzio, quando posso staccare il telefono. Ci resto in genere fino al tramonto: scrivo, registro pezzi al pianoforte, leggo, ascolto, orchestro. Appena una partitura è abbozzata mi raggiunge il maestro Mancini, esperto di programmi informatici, e rapidamente me la copia, in modo che io possa lavorarci sul computer. Quando fa buio in genere smetto, mi si appannano le idee, e so che la mattina dopo saranno più brillanti. Se devo lavorare molto cerco di svegliarmi prima, anche se è difficile perché la sera mi piace andare a teatro, al cinema, ai concerti, giocare a carte…
Quando invece sono in tourné per i concerti, è tutt’ un altro ritmo: si cena a notte fonda, ci si sveglia tardi in albergo, si ciondola per i paesi, si pranza al ristorante…
Tu hai detto che Fellini e Rota ti hanno insegnato molto: che cosa? E i tuoi altri maestri?
Rota mi ha insegnato la libertà mentale del musicista: pensa quanta libertà ci voleva per presentare i suoi concerti nelle stagioni accademiche di quegli anni in cui chi usava un solo accordo consonante dalle accademie veniva disprezzato e deriso come “reazionario, restauratore”. Lui aveva la forza di fregarsene, di seguire la sua bella stella, il conformismo no lo sfiorava nemmeno. Federico Fellini… beh, dieci anni a lavorare a fianco a un genio così, come si fa a non imparare: era sorprendente la leggerezza che metteva nell’operare, sulla fabbrica delle immagini e della musica. Altri maestri? Innanzitutto il grande compositore greco Manis Hadjidakis, che da un lato mi ha fatto scoprire Xenakis, dall’altro mi ha detto: “Tu sei un melodista. Devi imparare a non vergognartene e ad esserne fiero. Poi ho avuto la fortuna di incontrare maestri veri, non musicisti, come Elsa Morante, Carlo Cecchi. Ma Fedele D’Amico, che non ho mai frequentato, attraverso i suoi scritti è stato un maestro di formazione formidabile.
Tu vai spesso ai concerti, i direttori con cui sei cresciuto? (io sono pazzo di Kleiber..) E perché ti piacciono?
Come ho risposto prima, Kleiber (Carlos) per me era unico. Ma ho dei ricordi incancellabili: una Carmen in forma di concerto diretta da Pretre e una Eroica diretta da un giovane Metha all’auditorium del Foro italico anni fa. Una sesta di Mahler di Abbado a Parigi, e sempre di Abbado un Macbeth alla Scala, un Requiem di Verdi con la Freni. Un Otello di Muti al Maggio Fiorentino… Ah, stavo dimenticando tanti commoventi concerti di Giulini… non ho mai sentito dal vivo Celibidache e credo di aver perso qualcosa. Sui dischi invece si capisce fino a un certo punto: i dischi di oggi ormai sono tutti tecnicamente perfetti; si fanno certi restyling! Certo, le incisioni di Toscanini – Traviata, Falstaff, Concerto di Brahms con Horovitz – ancora oggi fanno drizzare i peli del corpo. Però ti dico che oggi vado felicemente e metodicamente ai concerti di Pappano, di Baremboin, e non rimpiango nulla del passato. Mi affascina invece molto il futuro.