L’Inno d’Italia

Il Messaggero - 28 Febbraio 2011

Qualche tempo fa, chiacchierando con Ennio Morricone, siamo finiti a parlare dell’inno di Mameli – musica di Michele Novaro. Lui mi diceva, più o meno, che è una musica non così brutta come si usa dire, ma che viene spesso penalizzata da esecuzioni troppo veloci che gli dànno un’aria superficiale, fanfaronesca. Lì per lì, di fronte al parere del grande maestro non ho obiettato nulla, ma ci ho riflettuto su. E alla fine resto della mia diversa convinzione – il maestro è amichevolmente tollerante – e continuo a pensare che un inno di questo tipo abbia tutto da guadagnare da un’esecuzione rapida, tesa, fortemente ritmica, in una parola toscaniniana. Se me ne dovessi occupare, ricorrerei anche a qualche ritocco di orchestrazione, leggero per carità: soprattutto qualche dinamica che ne accentui il carattere protoverdiano. Penso più al Verdi del coro-marcetta dell’Ernani che alla solenne bellezza del Va pensiero del Nabucco. La musica di Si ridesti il leon di Castiglia, come quella di Fratelli d’Italia, fa appello anche a quel po’ di zumpappà che scorre nelle vene di noi italiani e che non guasta, senza sconfinare però nelle ridicole goffaggini della vecchia Marcia Reale.

Un inno va giudicato non dalla sua bellezza estetica in sé, ma dalla sua efficacia emotiva, che è legata a diversi fattori storici. Chi trova il nostro inno nazionale musicalmente semplicistico vada ad ascoltare l’inno nazionale spagnolo: la Marcha de Granaderos, simpatica, allegra e gitaiola, al cui confronto la partitura del nostro Novaro brilla per complessità stilistica e armonica.

Federico Fellini amava raccontare che negli anni Quaranta Guglielmo Giannini, capo del partito dell’Uomo Qualunque, un antenato di Beppe Grillo, propose in parlamento di sostituire l’inno di Mameli con Dove sta Zazà, una macchietta dei geniali Cutolo-Cioffi. La proposta naturalmente non fu presa sul serio, ma al ricordo di quell’episodio, Fellini si divertiva molto a pensare che una parte di italiani voleva proclamare la propria identità nazionale cantando Zazà.
Negli anni Ottanta, prima che il grande Azeglio Ciampi si impegnasse per restituire rispetto all’inno di Mameli, girava la proposta di sostituirlo con una nuova partitura che lo stato italiano avrebbe dovuto commissionare a un celebre compositore nazionale. Si fece il nome di Luciano Berio. Ma anche questa non mi pare fosse un’idea felice. Un inno non si scrive a tavolino, a posteriori, in ambito puramente estetico. Per intendersi basta pensare agli inni delle squadre di calcio, e non sembri blasfemo il paragone. Fatte le debite proporzioni, chi è tifoso può capire: anche il severo maestro Morricone, quando la Roma vince, si lascia andare volentieri alla musica di Venditti, che risulta adatta all’occasione più di qualsiasi composizione elegante e complessa.

Certi canti si portano dentro la storia lontana che li ha visti nascere. Il nostro inno nazionale – parole e musica in blocco – porta il segno dei giovani eroi che facevano i poeti e contemporaneamente combattevano e morivano. A voler scrivere un inno a tavolino, al massimo esce l’inno di Forza Italia.
 
Nicola Piovani

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