Cecchi-Piovani, attenti a quei due

La Repubblica – 18 aprile 2012

di Rodolfo Di Giammarco

Ho visto e sentito Carlo Cecchi cantare, con Nicola Piovani al pianoforte. Giuro che è successo. Garantisco d’aver assistito all’imprevedibile performance di un duetto che non è in catalogo, non appartiene alla storia del teatro né della musica, e non ha confronti quanto a empatia, stato di grazia e livello di divertissement intellettuale, tale è stato l’apice di gioia umana e artistica che ha letteralmente contagiato la gremitissima, applaudentissima sala del teatro Vascello. E’ al termine di uno dei lunedì della rassegna “Doppio Assoluto” (La Voce intorno al Suono) organizzata dalla Fabbrica dell’Attore e da Controchiave/Lsd, è al culmine di lunedì 16 aprile, è in conclusione di un appuntamento irrituale, ed è in fondo anche per festeggiare una rimpatriata a tu per tu sulla scena tra Cecchi e Piovani che lavorarono assieme, il primo recitando, il secondo suonando dal vivo, niente meno che quasi quarant’anni fa, nel 1974, allora per una farsa di Petito (e magari per altre imprese sperimentali della compagnia Granteatro di Cecchi), è per una serie di idee e di coincidenze rare che ha preso corpo e anima questo numero improprio dolcissimo, sapientissimo, smaliziatissimo, con un Cecchi gaudente e malandrino che attendendo l’attacco di Piovani alla tastiera ha cominciato a eseguire la melodia prima di “Nonna nonna” di Bovio-Valente e poi di “Nun so geluso” di Armando Gil. E come nel miglior avanspettacolo coi lustrini, Cecchi era il diseur-chanteur che fa fatica a non scoppiare a ridere, e Piovani era il pianista che la sa lunga, che fa il clima, che determina l’armonia. Sono stati minuti in cui io ho avvertito quella cosa chiamabile estasi, in cui ci si innamora della vita, in cui capisci che ti sta accadendo una faccenda unica e impronunciabile, da far sì che vuoi bene, vai via di fantasia, raggiungi una sorta di felicità cui non dai spiegazione. Eppure questa strana coppia aveva messo a segno, prima di quest’epilogo canterino da dar via l’anima, una delle serate più serie, più poetiche, più pensierose, più civili e più toccanti delle nostre stagioni di cultura non ortodossa.

Cominciamo dall’inizio. Cecchi in camicia rossa e cravatta sgargiantissima sotto un vestito scuro (ma presto si libererà della giacca). Piovani procede in azzurro e grigio, un guardaroba “sapienziale” per lui compositore, esecutore, alchimista di parole fatte di suoni. Cecchi porta con sé due lattine di Coca Cola che poi avidamente sorseggerà durante il concerto-reading. L’inizio è un capolavoro di dosaggi biografici, intimi, storici, letterari, con Cecchi alle prese con varie stazioni del “Poeta delle ceneri” di Pasolini del 1966, tra odio e compassione per la figura d’un padre, tra dedizione e abbandono per la figura d’una madre, per gli strali violenti contro la borghesia piccola, e con Piovani che ha all’attivo già da tempo un proprio percorso musicale martellante e evocativo, crescente e arioso, che è un filo rosso epidermico dell’opera. Che bellezza profonda, sentire Pasolini dire “…io vorrei essere scrittore di musica…, per comporre l’unica azione espressiva alta e indefinibile come le azioni della realtà”. Poi ci si imbarca con le strofe, i versi d’un affresco apocalittico e ridicoleggiante, con la briosità ammonitrice della scrittura di Elsa Morante dedicata, nel “Mondo salvato dai ragazzini”, agli Infelici Molti (messi a confronto coi Felici Pochi), e il fedele e mordace depositario Cecchi valorizza tutti gli incisi, le reiterazioni, le pause, i suoni morfologici, con l’eco dei tasti resi docili e metronomici da Piovani.
Il quale Piovani ha poi per sé lo spazio ispirato dei “Sette contro Tebe” dal suo “Epta”, mentre Cecchi entra nel groviglio dei pensieri di Amleto che si misura con l’opaca tristezza, coi tranelli delle parole degli attori. E Piovani s’alterna con “La melodia sospesa”, e di nuovo Cecchi arringa calmo il “meglio morire di vodka che di noia” di “A Sergej Esenin” di Majakovskij. I due si scambiano sguardi professionali che in realtà declinano un’infinita, instancabile, forte, gentile complicità. Hanno un’aria contemplativa e si comunicano segnali, assensi, cerimonie di sincronizzazione, euforie d’autore, incantamenti da palcoscenico. Alla malinconia che t’entra nelle ossa del “Canto delle sirene” tratto da Piovani dal “Viaggio di Ulisse”, corrisponde il più flemmatico inno di Saba dell’ “Ulisse” cui dà senso Cecchi. Sarebbe il finale di partita. Con immensa voglia però di fare i bis canori. Che vengono richiesti a suon d’applausi scroscianti, lunghi, euforici. E ve lo riferirei ancora minuto per minuto, quel doppio cammeo canoro, vi direi di nuovo chissà che cosa della faccia impunita di Cecchi, e del volto solo in apparenza imperturbabile di Piovani. Ho assistito a una festa memorabile. Io c’ero. Lo potrò dire sempre. E lo racconterò sorridendo, col cuore nella testa, come adesso.

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