Per carità, liberateci dalla musica di sottofondo.
È un mio capriccio quello che mi fa sperare in una normativa sulle note passive, simile a quella sul fumo.
La musica passiva è quella musica che non ho scelto io, ma che devo sentire per forza: o perché sto comprando l’insalata a un supermercato, o perché sto mangiando in un ristorante à la pàge, o perché sto facendo fisioterapia, o perché viaggio sul taxi di un tassista invadente, o perché faccio benzina in un self service, o perché sto sotto il trapano del dentista… e l’elenco potrebbe continuare.
Sto parlando di quella musica diffusa ormai in molti ambienti pubblici, a basso volume, ma comunque invadente: il cosiddetto sottofondo, la musica da parati, una via di mezzo fra la musica “a palla” e il ronzio del condizionatore d’aria. All’inizio del secolo scorso Eric Satie teorizzò la pratica della “Musiqued’ameuble-ment”, musica d’arredamento. Provocava giocando, Satie: ma è successo spesso che provocazioni trasgressive delle avanguardie storiche sono poi diventate pane quotidiano della società consumistica.
Nella musica da tappezzeria la qualità di quel che si trasmette è un dettaglio di poco conto, è un dato marginale. Sono anche capitato, soprattutto fuori d’Italia, in qualche albergo pretenzioso che nell’ascensore e nelle toilette diffondeva addirittura Mozart o Ravel: peggio che andar di notte. Al fastidio si aggiunge una sgradevole sensazione di blasfemia.
In alcune trattorie, specialmente nell’Emilia delle terre verdiane, vengono addirittura diffusi e profusi brani d’opera, sempre a volume medio basso: Violetta che piange morendo di tisi, Calaf imprigionato che all’alba vincerà, Turiddu che prega la mamma. Nella maggior parte dei casi si diffondono canzoni i cui testi, in quei contesti, risultano a fatica decifrabili. E a soffermarsi nell’ascolto spesso si scopre che la voce in diffusione ci sta cantando un amore straziante, o un dramma sociale, o una protesta antisociale; mentre noi compriamo surgelati o arrotoliamo bucatini.
Qualche volta mi faccio coraggio e chiedo al gestore se si può spegnere quel sottofondo. E magari, patteggiando, ottengo di abbassarne il volume. Ma poi ci rifletto, e mi rendo conto che il mio è un comportamento snob, involontariamente prepotente e cafone nei confronti di altri clienti, i quali invece spesso gradiscono quest’usanza dilagante. Lo so, è un mio capriccio quello che mi fa sperare in una normativa europea sulla musica passiva, simile a quella sul fumo passivo, e so anche che si tratta di un’ennesima battaglia persa. Perciò ormai mi limito a informarmi prima, e a evitare i ristoranti e i dentisti musicarelli.
Amo molto la poesia delle canzoni, e proprio per questo mi avvilisce sentire il lavoro di colleghi, artisti e tecnici, mortificato al ruolo di rumore di fondo. Qualche tempo fa un gioviale chef mi illustrava le meraviglie di un culatello in un ristorante gioiosamente chiassoso e, fra il tintinnar dei brindisi e le vibrazioni dei cellulari sui tavoli, sono stato distratto dalla voce del grande Leonard Cohen che cantava il suo magnifico Halleluja: «Ho sentito che c’era un accordo segreto / Che David suonò per compiacere il Signore. / Ma a te non interessa la musica, vero?».
Raffaele Viviani a suo tempo scrisse una poesia contro la poste ‘a, il canto dei suonatori ambulanti nei ristoranti napoletani: è una poesia intitolata Fàciteme magnà, nella quale si lamentava in versi perché il suono dei mandolini lo deconcentrava dalla meraviglia dei vermicelli a vongole. Chissà cosa avrebbe scritto Viviani oggi, costretto a mangiare col perpetuo bordone del borbottio musicale che non dà tregua: i posteggiatori dell’epoca almeno ogni tanto facevano una pausa.