Ulisse, a voler credere ai sondaggi, è uno dei personaggi più famosi del pianeta, una figura che ancora incanta a diverse latitudini, in questo nostro mondo che cambia e stravolge i valori a una velocità talora fastidiosa, che disinvoltamente brucia e rinnova miti e riti consolidati. A un primo pensiero, dovrebbe interessarci poco un uomo che dopo la guerra di Troia ci mette dieci anni per ritrovare la strada di casa, che sfida il mare per tornare dalla sua Penelope ma intanto si ferma, si sofferma e si smarrisce, seguendo la sua indomabile curiosità, la sua voglia di conoscenza degli uomini – e specialmente delle donne. Potrebbero sembrare un po’ inattuali questi viaggi raccontati da Omero più di duemilacinquecento anni fa e datati più di tremila anni fa. E invece, ancora nel terzo millennio, le arti, non escluso il cinema, sentono il bisogno di tornare a raccontarne. Eppure Ulisse non è un personaggio storico, non è il profeta di una religione o di un movimento ideologico, non ha un ufficio stampa che ne diffonda l’immagine o una multinazionale che ne sfrutti il copyright. Il perché di tanta millenaria fascinazione è sorprendente, ma è anche comprensibile. Le facce di Ulisse che la tradizione ci tramanda, nell’Iliade e nell’Odissea, sono molteplici, diverse, a volte dissonanti fra loro, tante da generare quell’ambiguità seducente che è caratteristica dei personaggi eternamente moderni.
Mettere in musica una parte, anche molto parziale, delle seduzioni emotive di questo eroico antieroe è impresa che ha indotto in tentazione molti, da Monteverdi a Dallapiccola, da Guccini a Dalla. Monteverdi ne canta focalizzando la vicenda della vendetta finale, del ritorno a casa e della barbarica strage dei Proci, carneficina catartica descritta da Omero anche con un po’ di tarantinesco splatter. Luigi Dallapiccola invece, sotto influsso joyciano, è attratto dall’Ulisse uomo moderno, post-amletico, che interroga la coscienza sulla propria identità, che si chiede curiosamente: “E se io fossi Nessuno?”, il nome che si è dato nel nono libro per ingannare Polifemo.
Nel comporre il mio Concerto mitologico per piccolo ensemble e voci registrate sui viaggi di Ulisse, ho solo cercato di restituire coi suoni degli strumenti musicali la suggestione strettamente favolistica che quelle avventure suscitano in chi le legge e in chi le ascolta. L’aspetto creaturale di queste favole, che affascinano i bambini che restano a bocca aperta quando gliele racconti ad alta voce, è un aspetto che si presta molto a farsi musica, a lasciarsi commentare da un ritmo ostinato delle percussioni, da un grido lancinante del sassofono o dall’andamento cullante di un carillon, dai ritorni metrici delle strofe. Nel ventunesimo libro dell’Odissea c’è una descrizione di Ulisse che verifica l’efficienza dell’arco, l’arma che userà per vendicarsi: controlla con scrupolo il proprio strumento di guerra, anzi, lo “accorda” – scrive Omero (o chi per lui) – come si accorda uno strumento per fare musica, come un suonatore che deve cambiare la corda di budello di pecora alla sua cetra, e la tende per bene e con sapiente attenzione manuale intorno al bischero (il bischero è quel piolo di legno che ancor oggi si vede sul riccio degli strumenti ad arco). Una volta tesa la corda, Ulisse la pizzica con la mano destra, la fa suonare forte, la fa stridere come il garrito di una rondine. E accertatosi che il suo strumento è ben accordato, il “concerto” può cominciare, si può cantare la strage dei Proci, la scena a sottofinale di questa favola bella.