Vanity Fair Italia – 21 gennaio 2022
di Elena Filini
Il musicista Premio Oscar vede avverarsi un sogno rimasto nel cassetto per molti decenni, un’opera lirica modellata sul secondo romanzo di Vincenzo Cerami. Si intitola Amorosa Presenza, debutta il 21 gennaio ed è l’occasione per parlare d’amore, di musica, di Fellini e De André
Abbiamo tutti bisogno di amorose presenze. Di quegli affetti profondi che non sempre diventano l’Amore, ma restano nel tempo a riscaldare la vita. Nicola Piovani, 75 anni, andata e ritorno dall’inferno del Covid, ne è sempre più convinto. «Bisogna sviluppare un senso più profondo delle relazioni. Delle persone inutili ormai faccio sempre più volentieri a meno».
Il Premio Oscar de La vita è bella, al Teatro Giuseppe Verdi di Trieste, vede avverarsi un sogno rimasto nel cassetto per molti decenni, un’opera lirica modellata sul secondo romanzo di Vincenzo Cerami. E racconta con sincerità gli esordi. «De André? Ero un giovane piuttosto arrogante. Ora capisco la fortuna nell’averlo incontrato». Forse perché è un confine. Con memorie e dolori stratificati. Forse per quel vento, che spazza il mare pulendo anche il cielo, Trieste è un luogo giusto per dare corpo alla delicata malinconia della sua musica. Piovani lo sa e si dice grato ed «entusiasta per questo importante debutto».
La prima di Amorosa Presenza il 21 gennaio al teatro Verdi di Trieste, chiude un cerchio aperto quarant’anni fa. Come è nata l’idea di quest’opera?
«L’idea è nata tanto, tanto tempo fa. Su commissione del Teatro d’Opera d’Atene, cominciai a lavorare a questo progetto con Vincenzo Cerami autore del soggetto, disegnammo insieme la struttura del libretto. Ma la commissione cadde, e il nostro progetto finì in un cassetto. Poi, tre anni fa, in un’intervista un giornalista mi chiese: “Ha mai pensato a scrivere un’opera lirica?”. Io risposi: “Un progetto ci sarebbe, antico. Ormai ne riparleremo alla prossima reincarnazione”. Il giorno dopo mi telefonò Antonio Tasca, direttore del teatro Verdi di Trieste, e mi disse: “Perché non ne parliamo a questa di incarnazione?”. Ero diffidente, data la mole del lavoro, ma la direzione del teatro, il maestro Rodda, l’allora sovrintendente Stefano Pace, mi convinse senza tante difficoltà. E oggi sono molto grado a tutti loro: mi ritrovo alla vigilia di un debutto che mi entusiasma».
A Trieste è in buona compagnia per un debutto. Qui Giuseppe Verdi diede Il Corsaro e Stiffelio. Le piace la musica di Verdi, è in sintonia con il suo mondo. O c’è qualche autore lirico cui si sente più affine?
«Verdi è un vertice nel coniugare la genialità musicale con la genialità teatrale, e la sensazione è che per lui il teatro venisse addirittura prima della musica: era capace di tagliare musiche magnifiche se non erano funzionali all’azione, lo fece per esempio nel Don Carlo. E poi, naturalmente, il genio di Mozart, di Rossini, di Donizetti sono fuori da qualsiasi discussione. Giacomo Puccini è stato un gigante nell’interpretare l’arrivo del ‘900, con tutte le sue nevrotiche complessità. Questo ammiro nei grandi artisti: la capacità di raccontare i valori e i disvalori del loro presente».
Quella di Amorosa Presenza è una favola fatta di travestimenti e sguardi. Incredibile come sia l’opera che segue Un Borghese piccolo piccolo. Cosa le diceva Cerami a proposito del suo secondo romanzo?
«Cerami ha sempre amato viaggiare dentro i diversi generi letterari, teatrali, cinematografici. Il secondo romanzo, pieno di sospensioni, sembra quasi agli antipodi del primo, così crudo e realista. Ma quasi tutte le sue opere hanno dietro il lavoro di un soggettista a forte vocazione drammaturgica. (Non vorrei però fare un’intervista troppo letteraria)».
Il libretto è stato confezionato da lei e da Aisha, figlia di Vincenzo Cerami. Ci racconta il vostro rapporto?
«Quando abbiamo cominciato a parlare dell’opera Amorosa presenza, Aisha era una bambina che ci gironzolava intorno e ci sentiva parlare di poesia. Ora è una scrittrice con una spiccata vocazione per la metrica, che nella stesura di un libretto aiuta molto. Conosce cromosomicamente la poetica del padre, e mi è stata di grande aiuto».
L’opera è una favola d’amore. Ma ha utilizzato l’architettura classica dell’opera con i recitativi, le arie e i concertati?
«Ho tentato un percorso molto ambizioso: stendere un flusso narrativo continuo che però include l’uso delle classiche arie, cavatine, cabalette, concertati… sono numeri chiusi citati con un po’ di ironia, ma solo un po’. Insomma, questa storia la raccontiamo come in un fumetto naturalistico, è un ossimoro lo so, nel senso che ci prendiamo a tratti sul serio e a tratti no. Non a caso il protagonista di tutta l’opera è l’innamoramento, tappa della vita di tutti noi, che non si può sottovalutare, ma neanche crederci troppo. In questi giorni mi torna in mente un aforisma di Enrico Vaime: “Gli amori passano, non preoccupatevi!”».
In orchestra ha scelto strumenti concertanti o che hanno un ruolo particolarmente importante?
«Nel cinema ho sempre avuto un debole per il clarinetto, strumento narrativo come pochi. Ma qui, accanto all’impianto sinfonico, agli archi, agli ottoni, spuntano strumenti come il sassofono, la chitarra elettrica, l’ukulele, a dirci che stiamo parlando di una storia di oggi. Il primo abbozzo di libretto, degli anni Settanta iniziava con la didascalia “l’azione si svolge ai giorni nostri, in una metropoli immaginaria”. Il libretto di oggi dice: “L’azione si svolge negli anni settanta, in una metropoli immaginaria”».
Come ha lavorato con Chiara Muti? Quali scelte registiche? Mi pare che siate entrambi abbastanza contrari alle regie disturbanti.
«Ho avuto la fortuna di avere al mio fianco un’artista competente di musica e di teatro, che sta dirigendo il gigantesco palcoscenico del Verdi tenendo ben in pugno il timone. Sulle regie di opere non vorrei aprire polemiche: ci piacciono le regie che concentrino lo spettatore sulla comprensione della storia, non quelle che lo distraggono. È ovvio che se un regista mette Radamès su una moto Harley Davidson, cosa ci capisce un ragazzo, o anche un anziano, che vede per la prima volta Aida?».
C’è qualcosa delle esperienze della Compagnia della Luna, che fondò negli anni 90 con Cerami e Lello Arena, in Amorosa Presenza?
«Ci sono tutte le esperienze di teatro musicale e di concerto narrante che abbiamo prodotte in tutti questi anni. E poi c’è la luna, la luna che campeggia nel finale di Amorosa presenza, la luna evocata dai cantanti come incanto esistenziale, gli innamorati che danzano in compagnia della luna».
Tra i moltissimi registi con cui ha collaborato ( tre per tutti: Tornatore, Benigni, Fellini) chi secondo lei aveva più il senso della musica?
«Tornatore ha una bella cultura musicale, il che aiuta molto. Benigni ha una sensibilità acuta alla quale mi appoggio quando ho un dubbio: ”Fa diesis o do diesis?”, lui ascolta e suggerisce con precisione sorprendente. Fellini era Fellini: aveva nel cuore una quindicina di titoli che gli facevano da zodiaco di riferimento, e a partire da quelli ti trascinava nel suo mondo e ti metteva in condizione di tradurre in musica i suoi voli poetici».
Cristiano De André in Storia di un impiegato, il recente film che ha realizzato su suo padre, la cita molte volte ricordando gli incontri in Sardegna. Che figura è stata per lei Fabrizio De André? Che ricordo ne conserva?
«Ero molto giovane, e un po’ arrogante: solo più tardi ho capito la fortuna che avevo avuto a lavorare per un tale artista. Direi che aveva soprattutto una dote, che è una dote dei grandi: la capacità di ascoltare. Ecco, se dovessi dire oggi qual è il segno che accomuna gli artisti veri che ho avuto la fortuna di frequentare, direi che è la capacità di ascoltare, l’intelligenza dell’ascolto. Le mezze tacche tendono a parlare da sole».
Alle prove era presente anche Riccardo Muti: cosa le ha detto di Amorosa Presenza? Che tipo di consigli le ha dato?
«Come sempre, consigli preziosi che vengono da una sua dote speciale: quella di coniugare il discorso poetico, alto di una musica col discorso artigianale. La magia della parola teatrale, il senso del sublime, ma anche la stoffa da mettere in un certo punto della buca d’orchestra per migliorarne l’acustica. Un Maestro in tutti i sensi».
La pandemia ha chiuso i teatri e sconvolto le nostre vite. Lei ha fatto personale esperienza del Covid. Come ha influito quell’esperienza sulla persona che è oggi?
«Sono uscito dalla brutta esperienza di un lungo isolamento ospedaliero. E siccome ne sono sopravvissuto bene, è aumentato il mio amore per la vita, per le realtà e per le persone importanti, per l’aspetto profondo del nostro esistere. E è aumentata anche la mia intolleranza per i lati superficiali, consumistici della vita. Contano gli affetti veri, le persone vere, i legami veri. Delle persone inutili, posso ormai farne più facilmente a meno».
Le piace essere chiamato Premio Oscar? O questo è il tempo di concentrarsi sulla sinfonica, sull’opera sulla musica da camera?
«Ognuno mi chiama come vuole. L’Oscar è l’esperienza di un successo passato, lontano. Il successo è bello e importante, a condizione di ricordarsi che è un participio passato, e guardare avanti, a quello che faremo».
Il suo primo libro s’intitola La musica è pericolosa. Lo crede ancora?
«Certo. Le emozioni forti, come a volte è la musica, le esperienze artistiche e umane contengono spesso una pericolosa, benedetta messa in discussione di sé stessi. È la pericolosità gioiosa per la quale vale la pena vivere».