Per cantare l’umanitá e la parola

L’Osservatore Romano19  luglio 2022

 

Potenza della mitologia greca
A colloquio con il maestro Nicola Piovani

Per cantare l’umanità e la parola

Sulla sommità di uno dei sette colli di Roma Piazza del Quirinale è circondata su tre lati da magnifici palazzi, mentre il quarto si apre su una balconata che offre una veduta incantevole della città. Davanti al Palazzo del Quirinale così ricco di tanta storia — sede papale, palazzo reale, poi residenza del Presidente della Repubblica — e al Palazzo della Consulta dove ha sede la Corte costituzionale, al centro della piazza la bella Fontana dei Dioscuri con l’obelisco, un monolite di granito rosso alto quasi 15 metri e i divini gemelli Castore e Polluce affiancati dai loro cavalli. Accanto a questi eroi salvifici, protettori dei naviganti come cantava Orazio — «appena brilla/ la loro felice stella ai marinai/ l’acqua agitata si ritira dagli scogli/ cadono i venti e fuggono le nubi» — il 22 luglio risuonerà la musica meravigliosa di Nicola Piovani, in un concerto promosso dalla Corte costituzionale alla presenza del Presidente della Repubblica. Nata da un’idea del maestro Piovani la Cantata Il sangue e la parola per voce recitante, soli, coro e orchestra celebra una svolta di civiltà. Talento straordinario nel legare note e parole, due linguaggi che nella sua musica si incontrano con incantata naturalezza, Piovani torna alle origini della nostra civiltà, a quella Grecia classica che inventò i sogni della poesia e l’alfabeto della ragione e scrive una splendida elegia della creatività umana, capace di opporre al buio dell’irrazionalità la luce calda e umanissima del pensiero che prova a costruire un mondo migliore. Richiamandosi alle Eumenidi, la tragedia di Eschilo che racconta il primo processo voluto da Atena, la dea della sapienza, Piovani celebra in musica il passaggio dalla violenza della vendetta alla giustizia del diritto attraverso il trionfo del logos e la nascita e il consolidarsi della democrazia dove le leggi uniscono gli uomini in una nuova idea di società. Dal mito portato in scena per la prima volta nel v secolo a.C. nel più celebre teatro dell’antichità, quello di Dioniso posto sulle pendici dell’Acropoli di Atene, la Cantata trova poi ispirazione nella storia, nelle parole altissime della Costituzione italiana, la Carta fondamentale della nostra Repubblica pensata e scritta a garanzia dei diritti inviolabili dell’individuo e della collettività.

Come è nata l’idea di questa Cantata?

Una decina di anni fa rilessi l’Orestea, la trilogia composta dalle tragedie AgamennoneCoeforeEumenidi, l’unica del teatro greco antico giunta per intero fino a noi, dove Eschilo racconta la storia di sangue e vendetta nella famiglia reale di Argo, scandita in tre episodi: Agamennone, l’eroe che torna dalla guerra di Troia, viene ucciso dalla moglie Clitennestra, il loro figlio Oreste si vendica uccidendo la madre, il matricida viene perseguitato dalle furia delle Erinni per essere infine assolto nel tribunale dell’Areopago. Rispetto ai ricordi liceali mi colpì l’impressionante modernità delle Eumenidi, soprattutto dei monologhi di Atena che fonda il primo tribunale, sia pure mitologico, della nostra civiltà dando vita a «un istituto di giustizia che — dice Eschilo — resterà saldo per sempre». Lessi quei monologhi in un momento in cui imperversavano correnti di pensiero regressista, politici di spicco che mettevano in discussione i valori antifascisti della Costituzione italiana, governanti che si rifiutavano di partecipare alle celebrazioni del 25 aprile. Al tempo di quella lettura mi accorsi anche, con molta sorpresa, dell’assonanza profonda dei versi di Eschilo che risalivano al 458 a.C. con i testi delle madri e dei padri costituenti del 1946/47. Mi emozionai molto e mi venne allora il desiderio di mettere quell’emozione in una partitura, di farne una Cantata per voci e orchestra sinfonica. Proposi l’idea a un Teatro lirico ma il sovrintendente, che si era detto molto interessato, di lì a poco si dimise e di questa Cantata non si parlò più fino al giorno in cui vennero a conoscenza della mia idea Giancarlo Coraggio, presidente della Corte costituzionale e Giuliano Amato, allora vicepresidente e oggi presidente. Tutti e due si entusiasmarono al progetto e, grazie a loro, eccoci qua.

«Siamo tutti greci. Le nostre leggi, la nostra letteratura, le nostre arti, tutto ha le proprie radici in Grecia». Sono parole di Shelley che in questo elenco della grecità, riserva infinita di memoria per la cultura occidentale, non a caso pone al primo posto proprio il diritto.

Ho scoperto la potenza della mitologia greca da adulto, leggendo per diletto quelle favole meravigliose. Storie e personaggi di un Pantheon che racconta in modo seducente e creaturale i pensieri, i sogni, i timori, i conflitti umani; non solo i grandi temi come le Colonne d’Ercole o i drammi di Antigone, ma anche quelli minuscoli, quotidiani come gli adultèri di Zeus e le gelosie della moglie Era. Ispirandomi ai tesori di quelle favole mitologiche ho scritto più di una partitura: su Narciso, Ulisse, Apollo, Icaro… Ne Il sangue e la parola cerco di cantare «l’umanità e la parola» come Konstantinos Kavafis chiamava la civiltà che Atene ha insegnato al mondo. Perché con il mito delle Erinni, furiose e vendicatrici che vengono trasformate in creature benevole, le Eumenidi appunto, si compie il fondante passaggio dalla vendetta, che è simulazione di giustizia, alla parola di giustizia che argomenta, alla ricerca della verità processuale per realizzare uno stato di diritto. È un testo, quello di Eschilo, pieno di speranza, di fiducia nel cambiamento.

E la scrittura musicale di questa Cantata?

È una scrittura che tiene in buon conto le sperimentazioni del secolo scorso, delle tante ricerche che nel Novecento il linguaggio musicale ha sviluppato, dalle esperienze sinfoniche a quelle pop. Nel nostro tempo i nuovi lessici convivono con gli antichi, il passato con il presente. I diversi zodiaci musicali abitano la nostra mente e il nostro cuore di ascoltatori del terzo millennio. Chi ha l’abitudine di ascoltare Bach o Puccini incappa comunque nell’ascolto casuale di Lady Gaga; gli appassionati di musica sperimentale, volenti o nolenti, hanno nelle orecchie Beethoven o Sting, come i fan di Miles Davis conoscono qualche neomelodico napoletano. Gli steccati stilistici del passato, grazie alla tecnologia e alla società di massa, non esistono più. Questo è il nostro oggi e questo è il lessico musicale nel quale mi piace esprimermi, questa è la trasversalità nella quale la mia musica cerca di navigare, sempre votata al desiderio di raccontare un sentire non verbalizzabile, guardando a Händel come a Renato Carosone. Con una speciale attenzione allo spirito del canto, della cantabilità, che ha qualcosa di espressivamente unico e potente che si trasmette invariato di secolo in secolo. Il canto di Atena, nella mia partitura, a questo mistero del canto si ispira.

«Il sangue e la parola» è un altro splendido approdo di un percorso come il tuo dove musica e parole hanno uguale rilievo. Penso, solo per fare due esempi, a «L’isola della luce» con testi da Omero a Einstein e ai «Viaggi di Ulisse» dove la musica è accompagnata dalle parole di Pindaro, Tasso, Joyce, Saba.

Il Teatro con la T maiuscola è sempre stato il luogo principe per coniugare la musica con la parola: la tragedia greca, la sacra rappresentazione, l’opera, l’operetta, il musical, la zarzuela spagnola, la sceneggiata napoletana e così via. Quando si incontrano sulla scena musica e parole, coniugandosi in forme diverse, si accende una scintilla per cui il testo illumina la musica e la musica illumina il testo. Un incanto che ogni volta stupisce, dall’Orfeo di Monteverdi a Façade di Walton, dal Rigoletto di Verdi a West Side Story di Bernstein, dal Pierrot lunaire di Schöenberg al Paese dei campanelli di Lombardo e Ranzato. Le combinazioni stilistiche sono tante, molte secondo me ancora da inventare, da sperimentare.

La parola come voce nel dialogo, ma anche come ascolto. Un tema che a ragione definisci di primo piano ai giorni nostri.

C’è una diffusa tendenza al non ascolto o all’ascolto frammentato, inevitabili figli degli smartphone, dei talk show televisivi, dei messaggi pubblicitari che nella nostra epoca sono linguaggi vincenti. Mi capita spesso di guardare interviste televisive in cui chi fa la domanda poi non ascolta la risposta dell’intervistato o finge di ascoltare, ma è lampante che sta pensando ad altro. Ecco credo che l’esercizio all’ascolto sia un impegno che dovremmo prendere tutti. Un mio maestro, il grande regista teatrale Carlo Cecchi, insegna agli attori prima di tutto ad ascoltarsi fra di loro, contro l’abitudine recitativa diffusa di aspettare il turno della propria battuta. Una battaglia dura, ma questo è il sale del teatro di prosa, e di ogni nostro dialogo.

E l’ascolto nella musica? Noi che siamo il Paese con la storia musicale più ricca — abbiamo inventato di tutto, dalle note ai generi musicali ai violini più magici del mondo — trascuriamo la musica a partire dalla scuola dove confondiamo il “fare” musica con l’insegnare ad “ascoltare” la musica.

Si può frequentare la musica in mille modi: per ballare a Capodanno, come sottofondo, per cantare in un corteo o allo stadio… ma l’ascolto è il modo più intenso e gratificante che io conosca di vivere la musica. Ascoltare richiede attenzione, il rispetto della struttura di una composizione che è fatta di un incipit, di uno sviluppo, di un finale e anche di sorprese narrative a volte spiazzanti, quelle che fanno coniugare la bellezza con lo stupore. E la bellezza di una sinfonia non la si può frammentare scegliendo i passaggi più scorrevoli come negli spot pubblicitari. In musica, come nell’amore, si ama solo ciò che si conosce. Per questo l’arte dell’ascolto dovrebbe essere materia di insegnamento nelle nostre scuole fin dalle elementari. Io ebbi la fortuna al liceo Mamiani di avere un giovane supplente che portava in classe il giradischi e ci faceva ascoltare Mozart sotto lo sguardo canzonatorio dei professori più anziani. «Che c’è una festa da ballo?» era il commento sarcastico dell’insegnante di greco.

E la musica passiva, un’usanza sempre più dilagante?

Purtroppo è una musica che non si sceglie ma si subisce ormai quasi ovunque, dal telefono alla maggior parte degli ambienti pubblici. Tutta la musica, la pesante come la leggera, merita rispetto e mi dispiace vederla mortificata al ruolo di rumore di fondo. In quei momenti rimpiango il silenzio di una volta, quando in una vita sociale senza la musica diffusa, il suono di una fisarmonica o di un mandolino era prezioso. E immagino la dolcezza trascinante di una serenata, quel genere musicale frequentato da tanti grandi autori, da Mozart a Brahms, quando in notti silenziose e quiete, l’aria appena attraversata dai concertati di grilli, cicale e uccelli, saliva da un vicolo o dai campi una voce accompagnata da una chitarra, da un flauto, da un organetto. Quella musica era magia sotto il cielo stellato.

È un periodo per te di grande e felice creatività. A gennaio scorso hai debuttato al Teatro Verdi di Trieste con la tua prima opera lirica «Amorosa presenza».

È la mia prima opera lirica, ma forse anche l’ultima. Perché, mi chiedi? Perché mi sembra che i teatri d’Opera abbiano ormai un rapporto consolidato con i cartelloni: sempre gli stessi, meravigliosi, inossidabili titoli del passato, spesso purtroppo ringiovaniti da regie invadenti e clamorose, allestimenti esuberanti, stravaganze sceniche. L’opera nuova non entra in repertorio, è considerata un evento unico. Del resto, per una consuetudine consolidata, una nuova commissione prodotta dal teatro di una città non viene mai ripresa in altre città. Mesi di lavoro a scrivere, tempo e soldi spesi ad allestire, prove, scene, costumi, il tutto destinato a esaurirsi in poche rappresentazioni stagionali e locali. Una nuova opera — successo o fiasco che sia — non ha diritto di replica: la prima esecuzione assoluta è quasi sempre anche l’ultima. È triste e scoraggiante per un compositore. Le mie opere possono aspirare alle Techeté del futuro, consegnate ai posteri, «se posteri ci saranno» come diceva Giorgio Caproni.

In «Amorosa presenza», in un’atmosfera splendidamente fiabesca, canti la scoperta del sentimento d’amore quando, diceva Walt Whitman, si parla «senza dire nemmeno una parola».

Bisogna distinguere tra amore e innamoramento. L’innamoramento è uno stato di euforia adolescenziale, un’istantanea come quelle di Giulietta e Romeo, una rimozione del reale, un’esaltazione proiettiva, un senso unico. Anche un meraviglioso incantesimo la cui sostanza è la caducità, ma che viene vissuto con l’aspirazione all’eterno. L’amore invece è qualcosa di più profondo, che nasce sì con lo scoccare della scintilla dell’innamoramento, ma è un bene che poi va costruito e difeso con lucidità. Il grande amore è un sentimento adulto: chi l’ha provato sa che spesso l’idea dell’eternità gli va addirittura stretta. L’opera Amorosa presenza racconta la storia tortuosa ed equivoca di un innamoramento a lieto fine. E al momento del lieto fine, il momento in cui si comincia a costruire l’amore, a teatro come sempre cala il sipario.

Da un sentimento individuale come l’amore alla dimensione comunitaria e sociale di questa Cantata. «La nostra Costituzione è in parte una realtà… In parte è ancora un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere». Sono parole di quel grande padre costituente che fu Piero Calamandrei. Mi sembra molto bella questa immagine della Costituzione come parola vivente che non è ferma nella storia ma accompagna, compiendosi, i nostri giorni.

La Costituzione non è legge, è una strada politica e poetica indicata dal legislatore al Parlamento che deve legiferare per attuarla. Una strada non facile. Le nuove proposte di legge progressiste trovano spesso l’opposizione delle forze retrive e Ius da parola-luce è diventata per qualcuno una parola che sgomenta e fa paura.

Quasi diecimila parole di grande sobrietà e di altrettanta chiarezza espressiva è questa la nostra Carta costituzionale, la pietra angolare della nostra democrazia. C’è qualche articolo che ti è più caro?

«Art. 9 La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali». Mi sembra prodigioso che 75 anni fa i costituenti abbiano profeticamente sottolineato nei primi articoli del testo un tema che oggi si sta rivelando di importanza tragica. E poi citerei l’articolo 11 quello che chiude la nostra Cantata: «L’Italia ripudia la guerra…». Quel verbo “ripudiare” pare sia stato molto discusso in commissione. Così teatralmente intenso, così poco burocratico. Si racconta che quando l’articolo 11 passò per pochi voti, a Montecitorio un gruppo di costituenti festeggiò scendendo nell’emiciclo e ballando gioiosamente. A ballare furono soprattutto le donne, le madri costituenti. Questo episodio, narrato da una delle partecipanti, è probabilmente vero. E di sicuro è molto verosimile: ripudiare la guerra è un sentimento innanzitutto femminile. Gli uomini le guerre le hanno sempre fatte, le donne le hanno sempre subite, già dalla guerra di Troia.

Nel testo della Costituzione ricorrono parole come libertà, eguaglianza, dignità, lavoro, solidarietà che oggi, per essere spesso usate come vuoti contenitori, possono apparire usurate, ma che recuperano tutto il loro valore fondativo quando corrispondono a una visione del mondo. Tre parole che vorresti salvare nel vocabolario.

La prima che mi viene in mente è “coerenza” forse per reazione all’abitudine politica invalsa di dire oggi una cosa e domani un’altra. Quella che un tempo si chiamava “faccia di bronzo” è da molti considerata una dote del politicante in carriera. La seconda non è una parola sola, ma un sintagma: “l’amore per l’articolo”, quello che in passato aveva l’artigiano, il falegname che, quando arrivava a finire un bel mobile, lo guardava con orgoglio, al di là dell’utile che ne avrebbe ricavato. La terza è “convinzione”: tante volte ci troviamo a dover scegliere fra la convenienza e la convinzione. Ecco, credo che scegliere metodicamente la convenienza sia un modo di fabbricarsi l’infelicità.

«Il teatro è il linguaggio del futuro» si legge come intestazione del tuo sito.

Nel 2000, quando l’ho scritta, sembrava una frase provocatoria, improbabile. Oggi i numeri vedono una forte, incoraggiante tenuta dello spettacolo dal vivo — a dispetto di covid, lockdown, mascherine — a fronte di un disarmante calo delle presenze nelle sale cinematografiche. La manifestazione teatrale antica di millenni resiste ai cambiamenti: lo spettacolo condiviso in presenza fisica degli spettatori raccolti in un luogo teatrale, senza telecomando, senza mouse, è ancora un evento unico, prezioso e insostituibile. Le immagini video si sono moltiplicate, sono dovunque, a volte non richieste, i film vengono spacchettati e consumati in pillole e spesso stilisticamente tendono a imitare gli spot pubblicitari ormai onnipresenti. Mi viene di pensare che forse la fortuna del Teatro è che non interessa ai pubblicitari.

La sera del 22 luglio dirigerai come sempre la tua musica. Tre cose — diceva Mozart — sono necessarie per un buon pianista: la testa, il cuore e le dita. E per un direttore d’orchestra?

Non sono un direttore d’orchestra: dirigo solo le partiture che ho scritto io. Se dovessi dirigere Schubert o Mozart non saprei proprio cosa dire ai professori di un’orchestra che ha suonato quel repertorio decine di volte, anche con grandi direttori. Avrebbero loro da spiegare qualcosa a me. Se invece eseguiamo una mia composizione, allora penso di poterli aiutare a cavare quello che c’è di non scritto fra le mie note. Nel repertorio classico fra le note scritte c’è l’infinito, diceva il maestro Vittorio Gui. O anche, come dice il maestro Muti, fra le note scritte da Mozart c’è Dio. E come dargli torto!

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