Le estati dell’infanzia le passavo in un paesino del viterbese. Sono nato e cresciuto a Roma fra asfalto cemento e rotaie di tram, ma nei mesi estivi villeggiavo con tutta la famiglia in campagna, fra terreni coltivati a nocciole e ulivi. L’ulivo è l’albero con cui ho più familiarizzato e che ho più amato: quel verde chiaroscuro delle foglie, il sussurro che si sentiva quando il vento ci passava in mezzo erano il contraltare del mio consueto habitat metropolitano fatto di mattoni e clackson. Quando i frutti di questa pianta incantata della finivano nell’anziano e sgangherato frantoio di pietra, l’odore profumato che emanavano erano per me il richiamo dolce verso un mondo parallelo immaginato e antico.
Di quelle stagioni conservo il ricordo indelebile di un episodio: un giorno, a tramonto avanzato, in un campo vicino al nostro casale lavorava un anziano contadino – all’epoca mi appariva anziano, ma forse era molto più giovane di come lo percepivo io. “Cosa stai facendo?” chiesi, e lui continuando a scavare: “sto piantando un ulivo”. “E quando darà frutti quest’ulivo?” Mi rispose serenamente: ”Quando io non ci sarò più, ma bisogna piantàlli lo stesso”.
Ecco, mi incantò e mi turbò l’idea di quest’ uomo che lavorava tutto il giorno, che si spezzava la schiena nei campi, che viveva tutt’altro che nel lusso, ma che trovava anche la forza e il tempo di compiere un gesto “inutile” come piantare un albero di cui lui non avrebbe mai goduto, un gesto dedicato alla generazione a venire. Mi porto nel cuore da anni Il ricordo di quell’ulivo piantato con il severo piacere di lasciare un bene dietro di sé, il gesto maestoso e sacro di un contadino – che peraltro avevo sentito più volte bestemmiare.
Quando Beatrice Rana mi ha proposto di scrivere un brano cameristico per il suo festival, legato alla presenza arborea salentina, alla difesa del patrimonio, al coinvolgimento civico negli interventi di rimboschimento, mi sono messo a cercare nella mia mente. E il ricordo di quell’episodio mi ha acceso la scintilla che serve per mettere la matita sul pentagramma.
Nei miei ricordi, una forma musicale di riferimento di quei paesani antichi – era una quarantina di anni fa ma mi sembrano lontani secoli – era la Romanza, quel canto lirico appassionato, a volte struggente a volte svenevole, che rimandava a rimpianti malinconici, a passioni di gioventù.
Parliamo di un’epoca che risale a pochi decenni fa ma che, come ho detto, sembra lontana secoli, sembra un film della memoria in bianco e nero. Un’epoca lontana che ha lasciato più di una scheggia nel mio animo, qualche lampo, qualche cicatrice che ho cercato di traslare in quest’ultima mia partitura, La romanza dell’ulivo.
Nicola Piovani – Giugno 2024
P.S. Se qualcuno vuole leggere in questo brano anche qualche nostalgia politica, può farlo.