La canzone è una forma di composizione dalle apparenze semplici, ma è ben complesso analizzarne la natura, definirne l’essenza e tentarne una storia critica. Vorrei qui solo avanzare qualche considerazione, qualche nota a margine.
Le canzoni vivono nell’aria, vengono respirate anche da chi non ci fa attenzione. E quasi ognuno di noi ha un episodio importante della propria vita legato a un refrain, a un titolo, a un disco a cui associa una persona cara, un clima di famiglia, un amore infantile: da una Marinella a un’ Albachiara, da un Piccolo grande amore a una Casetta in Canadà. Le canzoni attraversano sornionamente la vita dei nostri giorni, delle nostre città, delle nostre intimità, ne scandiscono i passaggi. In un certo senso, se ne infischiano della critica.
Nel nostro tempo tentare delle definizioni definitive dei generi musicali è faticoso, e spesso frustrante. Nel secolo scorso fu introdotto il termine “musica leggera”, difficile da definire, ma pratico da usare per indicare le canzoni commerciali. Ultimamente, sulle colonne di questo giornale, l’illuminante professoreQuirino Principe ha proposto il termine “musica forte” per indicare quella che un tempo, superficialmente, chiamavamo “classica” per distinguerla da quella oggi è chiamata correntemente “pop” – altro termine vago ma utile – e che quindi ora, seguendo il Principe, chiameremo “musica debole”. Fino a poco tempo fa, in molte riviste generaliste c’era la rubrica di critica musicale ripartita in: classica, leggera, jazz. Ripartizione risalente a quando la nostra società era suddivisa in ceti sociali ben individuabili: classi colte alto borghesi per la “classica”, il cosiddetto popolino per la leggera, lasciando a uno strato piccolo borghese l’opera, intesa come melodramma italiano ottocentesco; e, per le minoranze sofisticate, il jazz. Oggi, con l’avanzata della società di massa, le carte si sono, nel bene e nel male, sparigliate, gli steccati fra i ceti e fra i generi si sono indeboliti, i ricchi borghesi spesso ignorano chi sia Chopin, e a Sanremo Daniel Harding dirige Wagner.
La canzone comunque viene ancora oggi rubricata come musica “debole” (già “leggera”), però le canzoni di Schumann o di Brahms – in tedesco “lieder”- si mettono scrupolosamente nella teca della musica “forte”, già ”classica”. Magari la questione si complica quando un lied di Schubert lo canta Al Bano, anziché Fischer Dieskau.
Un altro termine col quale cerchiamo di intenderci e difenderci dalla confusione lessicale è il termine “musica seria”. Ho letto di recente nel programma di sala di un concerto dedicato a Leonard Bernstein <è autore di musical e canzoni di successo, attività che alterna con quella di compositore “serio”>. Il contrario “serio” sarebbe, penso, “allegro”. Dal che discende che il Duetto dei gatti di Rossini sarebbe un brano “serio” mentre le canzoni di Vecchioni sarebbero “allegre”. Come si vede, appena si tentano definizioni di generi musicali esse ci sfuggono, e ci salviamo un poco soltanto facendo uso e abuso di virgolette.
A volte, per semplificare, diciamo che, <fuori dalle etichette, la musica si divide soltanto in “bella“ e “brutta”>: è una frase che in genere prende l’applauso, ma che lascia i nodi legati, le questioni sospese, i dubbi irrisolti.
La canzone è un genere di musica che non prescinde quasi mai dal suo successo. Molti libri seri sulla musica pop iniziano il capitolo su un artista, su un gruppo, su un album informandoci di quanti milioni di copie ha venduto. È premessa considerata imprescindibile per stabilire il valore di un’opera pop. Sarebbe come se, per compilare una guida gastronomica, ci si facesse guidare dal quoziente di affollamento di un ristorante, dalla quantità di coperti giornalieri, dal consumo turistico, anziché dalla qualità del cibo.
Uno dei complimenti più diffusi che si fa a una canzone del passato è quello di aver “segnato un’epoca”. Ben sappiamo però che le epoche vengono segnate sia da avvenimenti gloriosi (lo sbarco sulla luna) sia da avvenimenti tragici (le guerre coloniali), sia da canzoni magnifiche (Yesterday di Lennon-McCartney) sia da canzoni mortificanti (Il pericolo numero uno: la donna di Bonagura-Cozzoli). Ma il segno che una canzone lascia nel suo tempo è qualcosa che sfugge all’analisi critica, è qualcosa di imprevedibile, strettamente legato a coincidenze sociali, al costume, alla casualità della moda. Prendiamo la bella e struggente: “Perduto amore”, sottotitolo “In cerca di te” versi di Gian Carlo Testoni musica di Eros Sciorilli più nota come “Sola me ne vo’ per la città”. Ebbe enorme successo, “segnò la sua epoca” come poche altre. Scattò un meccanismo di identificazione popolare con questa piccola, geniale lirica, la quale canta di uno – o una – che cerca di dimenticare il suo dolore d’amore, passando fra le macerie e fra la folla che non sa. Quel successo fù molto legato al clima sociale del dopoguerra italiano, doloroso e speranzoso insieme, al sentimento di fine tragedia e di chimerica fiducia nel futuro. Se fosse stata pubblicata dieci anni prima o dieci anni dopo, chissà se staremmo ancora qui a parlarne!?
Conoscevo un professore, un musicologo molto severo, che ascoltava solo Bach e Schoenberg, Frescobaldi e Stockhausen, e che giudicava popolaresco Giuseppe Verdi, triviale Mascagni, insignificante Gershwin. Storceva il naso pure su Offenbach. Questo professore però aveva avuto una storia d’amore finita male (per lui), legata a una vacanza indimenticabile (per lui). Per associazioni che non rivelò mai, si commuoveva con gli occhi lustri ogni volta che sentiva poche note di “Una rotonda sul mare” di Bongusto. Potenza associativa di una canzonetta!