Ogni ragno è attaccato e vo’ bene a la su’ tela…
Così Giuseppe Gioachino Belli spiega perché uno come me – nato, cresciuto e da sempre abitante a Roma – è fatalmente attaccato a questa discussa e discutibile città. (Ma se fossi nato a Foggia, o a Cuneo o a Città di Castello, il sentimento sarebbe lo stesso, credo). L’amore per certe piazze, per certi cieli, per certi profumi, per la musicalità di certe voci, non è un amore adulto, acquisito, critico. E’ un amore cromosomico, creaturale, illogico. Fulminante come una cotta, solido come il travertino dei palazzi romani. E’ amore per le bellezze, ma anche per certe bruttezze, che sono fissate nella memoria.
Da bambino abitavo al quartiere Trionfale, frequentavo le elementari dalle monachelle e, quando prendevo un bel voto, mia madre mi dava un premio. Il premio consisteva in un cioccolato caldo – che si chiamava squaglio di cioccolato – con una bella razione di panna. Era la specialità di una latteria di via La goletta, una strada sghemba situata al centro di un popolare mercato del pesce, che era aperto di mattina. Nel primo pomeriggio, passava un camion che spruzzava sui marciapiedi e sull’asfalto una pioggia di acido fenico, un disinfettante per fogne molto usato negli anni Cinquanta. L’operazione non riusciva a coprire completamente il tanfo di pesce che arrivava comunque alle narici. Ci arrivava coperto dal tanfo di acido fenico, che è forse più fetente di quello del pesce vecchio. Le strade disinfettate si coprivano di un luminescente manto bianco che sfumava in grigio topo verso il centro della via. Con la mano nella mano di mia madre, camminavo fiero per via La goletta, fino a raggiungere la gloriosa latteria. “Uno squaglio con panna abbondante!” “Ah, è stato bravo allora oggi il ragazzino?!” rispondeva la robusta lattaia, e mi serviva l’ambito premio in un bicchiere di vetro spesso e infrangibile, pieno di panna appena montata e di cioccolato bollente. Aspettando che si raffreddasse un po’, me lo divoravo con gli occhi, mentre fuori dalla vetrina la strada imbiancata sembrava un paesaggio da favola natalizia, come fosse caduta la neve. Assaporavo il cacao con gli occhi, mentre al naso arrivavano i miasmi di acido fenico e pesce, ai quali ancor oggi associo l’idea della gioia gratificata: merito di mia madre, naturalmente.
Con un armamentario di ricordi simili, come potrei non essere definitivamente attaccato a Roma? Se poi si aggiunge che ho vissuto qualche anno a via del Corso dietro al Pantheon, e poi al portico di Ottavia, e poi a piazza Navona, cioè fra gli angoli cittadini più belli del mondo, come potrei pensarmi in un altrove, lontano da questa città, nella quale galleggio da più di mezzo secolo?
Ricordo poi gli anni Settanta, quando si comprava Paese Sera per diversi motivi, fra i quali la scelta del film da vedere. Facevo con gli amici dei piccoli consulti quotidiani prima di decidere regista, titolo e sala. Come ha detto di recente Ermanno Olmi, erano tempi in cui più che i film seguivamo gli asterischi.
C’erano i voti della critica che premiavano o bocciavano un titolo, un regista: quattro asterischi ottimo, tre buono e così via, mediocre, da non perdere, da vedere… La categoria più difficile da decifrare era da vedere anche se discutibile (era scritto testualmente così). Dopo un dibattito spesso accalorato, partivamo verso un cinematografo a volte lontanissimo, in quartieri sconosciuti… un’impresa, senza navigatore e Google map. Fortunatamente sui giornali non compariva quasi mai la categoria maggiori incassi che oggi spadroneggia. Si sceglieva su criteri più complessi, forse più teorici. Il giudizio delle severe redazioni non mostrava nessuna smania di identificarsi con gli esiti del botteghino. E forse era un po’ meglio.
Un ultimo motivo per essere attaccato a Roma? La memoria incancellabile di un passaggio, tanto tempo fa, all’alba, a piazza del Quirinale: una imminente primavera, una luce struggente, una sagoma folgorante, una bellezza asimmetrica. Nessuno meglio di Gadda ha descritto certi momenti romani che rassomijano a la felicità.