Close-up.it – 13 Giugno 2011
di Alessandro Izzi
Il quintetto è l’arte del dialogo.
Gli strumenti parlano tra loro, si lasciano andare a confidenze reciproche, si sostengono e si ascoltano.
Quel che divide sempre la musica da camera da quella sinfonica, anzi, è proprio questa dimensione del reciproco ascolto, questo stare insieme di strumenti diversi in nome della musica al di là ed indipendentemente dal pubblico.
Beethoven, ad esempio, chiese esplicitamente che il suo quintetto più grandioso e bello restasse ancorato all’esecuzione e non toccasse mai le orecchie di un pubblico eventuale. Era un regalo per chi lo suonava, destinato al silenzio per tutti gli altri.
Si narra anche che ben prima della nascita del jazz e di certe forme di musica di intrattenimento più recenti, i solisti fossero sempre disposti in cerchio, uno di fronte all’altro, nella possibilità di vedersi. Tra loro gli sguardi e la musica, alle spalle un pubblico quasi escluso dal gesto amoroso dell’esecuzione.
Il dialogo, per essere vero, deve essere tra pari. A ciascuno il suo frammento di materia sonora, la sua battuta, il suo pensiero e la Verità nel mezzo a prendere corpo dall’insieme: Polis ideale, principio di democrazia assoluto.
Piovani prende il quintetto come genere d’elezione per un racconto da farsi quasi sottovoce. La riscrittura musicale (perché molti dei pezzi presentati in questo CD erano stati scritti e pensati per altro organico ed altra destinazione) passa non per i timbri e non per le geometrie della musica su carta di quella che è più bello leggere che ascoltare, ma per il canto.
Italiano sin nel midollo, Piovani pensa per melodie e i suoi strumenti discutono appunto per tempi ampi e tutti da cantare. Il materiale, nella sua concezione, non si spezza né si divide, ma si dispone. Quando scrive, sembra che il compositore lavori per campate che ogni strumento riempie col suo colore e con solo sottili percussioni e un contrabbasso a dare ritmo.
Così è Il pianino delle meraviglie (prima traccia arguta di un cd che alterna con sapienza ironia e malinconia amorosa) che il suo ragtime lo rimbalza tra pianoforte e sassofono senza che il tema se ne stia mai a metà, fratturato da ogni possibile allusione contrappuntistica.
Lo stesso La stanza del figlio, col suo tema da Stabat Mater (sequenza medioevale cui Piovani ha dedicato uno dei suoi esiti musicali più folgoranti), vive nella gentilezza del gesto pianistico laddove il violoncello prende corpo solo più avanti nell’ostinato in sette ottavi che è il dolore che ribatte sempre sulla stessa ferita dell’anima.
Di cinema ce n’é tanto in questo CD. Non è una sorpresa. Molti lo compreranno proprio per questo. Ma la sorpresa più grande sta altrove: nei tre miti greci che, ad un passo dalla fine, illuminano di luce nuova un’invenzione che è nata proprio per questo organico.
I dioscuri prende il via in una luce lunare da pizzicato fatale cui subentra il serrato dialogo tra sax e pianoforte in una resa assai pregnante del mito dei due fratelli. La musica, più rapsodica del solito, si abbandona con più difficoltà al canto spiegato in un clima di sospensione che, in certi momenti, potrebbe far pensare alla musica di Karaindrou se non altro per affinità di colore strumentale.
Icaro, viceversa, cerca, nella sua eccezionale brevità, aperture inaspettate in un crescendo ebbro di voglia di volo che si affida quasi interamente al sax.
Narciso ed Eco spinge invece il discorso verso un andamento assai più barocco, variegato e pieno di invenzioni.
Quel che colpisce di In quintetto è la ricerca di un linguaggio ad un tempo classico e moderno, denso di esperimento, ma avaro di sperimentalismi. Musica di grande comunicazione che fa del “porgere” la sua cifra più vera e il suo senso più profondo.