Tiscali – 6 maggio 2011
di C. Sanna
Piovani: “Viva la fine degli steccati tra cultura alta e popolare”
Dai cortometraggi impegnati, musicati durante gli anni della contestazione in collaborazione con Silvano Agosti, alla reinvenzione del teatro musicale con Vincenzo Cerami. Passando per una lunga serie di collaborazioni discografiche e per il cinema che lo hanno visto interagire creativamente con Nanni Moretti, Marco Bellocchio, Fabrizio De André, Federico Fellini e molti altri. Premi prestigiosi, tra cui spicca il premio Oscar per le musiche di La vita è bella, di Benigni. Una carriera ricca, quella di Nicola Piovani, riletta nell’album In Quintetto che ripropone per piccolo ensemble alcune delle composizioni più amate del maestro romano. Di questo disco in uscita il 10 maggio, piccolo riassunto di una vita spesa tra note e fotogrammi, alla larga da facili autocelebrazioni, abbiamo parlato con il compositore.
Maestro, l’idea di arrangiare alcuni dei suoi celebri temi per quintetto, dunque per un ensemble più contenuto, è un modo per renderle più asciutte e intime all’orecchio dell’ascoltatore?
“L’intento è esattamente questo, più intime e più vere, nel senso teatrale del termine. Nessuna ambiziosa post-produzione, né sovraincisioni. Abbiamo registrato in studio in diretta, come si fa nel caso di certe produzioni jazz, in modo che chi ascolta abbia proprio l’impressione di avere il quintetto che suona in un teatro, solo per lui”.
Fra le composizioni che lei ha scelto tra quelle incluse nell’album ce ne sono alcune a cui è particolarmente legato?
“Direi le ultime due della lista. La voce della luna, cioè l’ultima musica che ho scritto per Federico Fellini, che mi dà particolare emozione, e Poeta delle ceneri, scritto ispirandomi ad una poesia di Pier Paolo Pasolini, letta da Ascanio Celestini in occasione della prima esecuzione di questa partitura”.
Due brani, inclusi nella Suite De André, ricordano il suo lavoro accanto al grande cantautore.
“Ho a lungo evitato di suonare brani della mia collaborazione con Fabrizio, negli anni tra il 1970 e il 1973. Non perché li considerassi inferiori, ma al contrario, perché ho sempre ritenuto che fossero un suo patrimonio, qualcosa da non invadere. Poi mi sono deciso a isolare, in sola chiave strumentale, due temi scelti fra i tanti che componevano Storia di un impiegato e Non al denaro, non all’amore né al cielo, e di proporli come se fossero uno zoom su fotogrammi significativi di un’opera più grande, l’opera di De André, appunto”.
Scrivere per il cinema significa muoversi in bilico tra due opposti: la cultura cameristica e classica, e il gusto popolare degli spettatori che entrano in sala. Come riesce a realizzare l’equilibrio tra questi due poli?
“Siamo tutti in bilico, io che scrivo musica come amici miei che fanno il chirurgo o altre professioni. La sfida sta proprio nel mantenere l’equilibrio. Nel caso delle colonne sonore, è importante che la musica sia al servizio delle immagini, quasi che ci si possa apparentemente dimenticare di essa. Salvo poi ritrovarla anche per poche note, e avere come effetto la ricomposizione nella nostra mente di un film visto anche molto tempo fa. La musica ha questo enorme potere di richiamo emotivo e mentale, ma attenzione ad evitare che, slegata dai fotogrammi, quella musica sia del tutto priva di senso”.
Cosa non le piace della musica applicata al cinema e quali lavori ha apprezzato di recente?
“Esistono lavori di eccellente qualità, fra i quali mi piace citare quello fatto da Alexandre Desplat per L’uomo nell’ombra di Polanski. Per contro non amo la musica da film ridotta a semplice tappeto sonoro di sottofondo, o l’uso furbo e disimpegnato di canzoni anche bellissime, inserite però senza senso progettuale nella colonna sonora di un film”.
Da più parti si riflette su come, nel corso degli ultimi quindici anni, siano crollati gli steccati tra cultura altissima e popolare. Come considera questo genere di ibridazioni?
“Già negli anni Ottanta combattevo una mia personale battaglia contro gli steccati e gli snobismi. Bisogna ricordare che tali divisioni, tipo quella che divide la musica in classica, jazz e pop, risale agli anni Cinquanta, quando in Italia le classi popolari ascoltavano le canzonette sanremesi, la borghesia ascoltava anche l’opera, gli alti strati borghesi più colti frequentavano la musica sinfonica, i raffinati si davano a quella da camera e infine i cosiddetti outsider prediligevano il jazz americano. A ogni musica il suo ceto sociale, uno scenario che è stato spazzato via dalla storia e dai mutamenti culturali, salvo sopravvivere in certe deformazioni mentali. Resto perplesso, poi, quando sento certi compositori dire frasi tipo: ‘io scrivo la musica classica contemporanea’. E’ un ossimoro, che vuol dire? E’ come parlare di antiquata attualità, o di ghiaccio bollente. E’ classico ciò che supera il proprio tempo e parla ai posteri, come Il trovatore, Amleto, Dostoevskij o la Quinta di Beethoven. Altre opere rimangono incasellate nella loro epoca e oggi non dicono più niente. Per fare altri esempi, la Lodoletta di Mascagni al giorno d’oggi non ha più senso, Sgt. Pepper’s dei Beatles è più forte e attuale che negli anni Sessanta”.
Tornando a lei, ci svela qualcuno dei suoi impegni per il prossimo futuro: saranno più incentrati sul cinema o sulla musica indipendente dalle immagini per il grande schermo?
“Entrambe le cose. Ho appena terminato di scrivere le musiche per il film La conquete, sulla presa del potere in Francia da parte di Sarkozy, e attualmente scrivo per sei strumenti e voci registrate sui viaggi di Ulisse, un tema che mi affascin da tempo. Ma è anche assai probabile che prenda corpo un progetto che mi vedrà interagire con molti artisti italiani legati alla canzone”.